La rimodulazione volontaria degli incentivi non è attraente per gli operatori. Messi di fronte alla scelta obbligata, rinunceranno a futuri rifacimenti, potenziamenti e ricostruzioni. Il legislatore, con una norma inefficace, condann all’abbandono, al degrado e all’obsolescenza il parco italiano delle rinnovabili. Un articolo di eLeMenS.
Il decreto “Destinazione Italia” introduce rilevanti novità per il settore delle fonti rinnovabili, tutte improntate al manifesto obiettivo del Governo di ridurre l’onere corrente gravante sui consumatori di energia elettrica. Tra esse si distingue la cosiddetta norma “spalma-incentivi”, specialmente in considerazione della fiducia dichiarata da parte del Governo sull’impatto che tale intervento avrà sugli oneri di sistema: ad esso vengono ricondotti ben 700 degli 850 milioni di euro complessivi di minor spesa che “Destinazione Italia” intende raggiungere (vedi QualEnergia.it). Il condizionale è d’obbligo, ma un’analisi più attenta ci suggerisce che sarebbe più corretto utilizzare il periodo ipotetico dell’irrealtà.
La scelta volontaria dei produttori da fonti rinnovabili di ridurre il valore unitario dell’incentivo a fronte di un allungamento del periodo di incentivazione non appareinfatti percorribile da nessun operatore razionale, dal momento che qualsiasi riduzione soddisfacente per un produttore non risulterebbe sufficiente per ridurre la spesa, anzi.
Un esempio può aiutarci a capire: prendiamo il caso di un impianto eolico che a oggi può godere ancora per 7 anni dei Certificati Verdi e deve decidere se aderire a una dilazione di ulteriori 7 anni. A fronte del raddoppio del periodo di incentivazione, a parità di valore totale dell’incentivazione totale residua, l’incentivo annuale si dovrebbe dimezzare. Chiaramente, il produttore deve pur tenere in considerazione gli elementi finanziari dell’operazione (inflazione e costo del denaro), la perdita di efficienza dell’impianto per degradazione fisica, nonché – forse soprattutto – il rischio a cui si espone per ulteriori sette anni nei confronti dell’incentivazione. Le nostre stime valutano che, a parità di IRR dell’investimento, l’operatore non sarebbe disponibile ad accettare una riduzione inferiore al 30%.
Tuttavia, a livello aggregato, riduzioni tali da indurre gli operatori ad aderire allo “spalma-incentivi” non possono che comportare una maggiore onere complessivo in capo al GSE – risultato antitetico rispetto all’obiettivo politico generale. Infatti, in base alle analisi contenute nell’ultimo LookOut “Rinnovabili Elettriche” di eLeMeNS, se il nuovo livello di incentivazione sarà fissato ad un livello tale da risultare per lo meno indifferente per gli operatori (ossia, non modificherà i rendimenti previsti degli impianti), ipotizzando un coinvolgimento del 50% degli impianti non fotovoltaici e del 5% degli impianti fotovoltaici (come da ipotesi della relazione illustrativa della legge), l’operazione spalma-incentivi comporterà risparmi complessivi pari a 3 miliardi su tutto il periodo 2014-2025, mentre nel periodo successivo (2026-2039) comporterà un aggravio di circa 8 miliardi complessivi. Un’operazione di trasferimento del debito sul futuro ad alto costo, dunque.
L’articolato di “Destinazione Italia” cerca dunque di utilizzare altre leve per convincere gli operatori: chi non aderisce allo “spalma-incentivi”, al termine del periodo di incentivazione, non potrà accedere al Ritiro Dedicato e ad altre forme di incentivazione per i dieci anni successivi.
Il risultato che ci si attende è che gli operatori accetteranno il male minore e, a malincuore, rinunceranno a rifacimenti, potenziamenti, integrali ricostruzioni. Su quale tipo di aspettative infatti si potrà anteporre la possibilità di accedere ai rifacimenti una volta terminata l’incentivazione (quindi almeno tra 7 anni) rispetto al mantenimento del livello dei flussi di cassa originariamente previsti?
Pur prescindendo da qualsiasi giudizio di valore sulla bontà dell’incentivazione ai rifacimenti, ciò suonerà come una vera e propria beffa per alcune iniziative: si pensi, ad esempio, a quegli impianti entrati in esercizio nel 2001, che, giunti ormai a fine incentivazione, tra pochi mesi avrebbero potuto accedere ai rifacimenti e si vedono invece privati di questa possibilità – salvo ovviamente accettino di spalmare in 7 anni i pochissimi euro di incentivazione residua spettante, sperando che nel 2021 esistano ancora incentivi sui rifacimenti.
Ragionando in un’ottica di sistema, appare poco comprensibile che il legislatore – attraverso una norma inefficace – si prenda il rischio di produrre un solo risultato: l’abbandono al degrado e all’obsolescenza del parco rinnovabile italiano di generazione.